Meccanismi di anedonia da stress e problemi della ricerca

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 03 novembre 2018.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La semeiotica psichiatrica conosce da tempo l’anedonia, ossia l’incapacità di provare piacere nelle condizioni oggettive e soggettive in grado di produrlo, quale sintomo del vissuto e segno clinico della depressione maggiore e di stati depressivi acuti ma profondi, a genesi reattiva su un fondo di predisposizione.

Nel secolo appena trascorso, quando non si sottovalutava l’importanza della comprensione dello stato d’animo del paziente da parte dello psichiatra, i trattati e i manuali di clinica psichiatrica includevano dettagliate descrizioni dello stato depressivo grave, spesso basate sugli studi dei fenomenologi, sui rilievi anamnestici e sulla registrazione dei contenuti delle sedute di psicoterapia. Le scuole di psichiatria italiane non rinunciavano – e le migliori ancora oggi non rinunciano – a trasmettere elementi in grado di consentire al medico in formazione di comprendere lo stato mentale, al punto di potersi immedesimare nel vissuto del paziente, così da trasmettergli con efficacia la propria partecipazione affettiva, ma allo stesso tempo la propria sicurezza circa la possibilità di venirne fuori. La certezza del paziente di essere stato compreso realmente da parte dello psichiatra, lo avrebbe aiutato ad avere fiducia nelle possibilità terapeutiche e a fornire quella collaborazione indispensabile alla buona riuscita del trattamento.

Si proponeva la definizione classica di tristezza vitale per indicare la particolare esperienza soggettiva di carattere negativo in cui prevale la perdita di senso, di scopo e di desiderio sul dolore psichico caratteristico degli stati meno profondi. Nella tristezza vitale il distacco dal mondo appare completo, e il senso di futilità di ogni cosa e di inutilità della vita stessa è associato ad una apparente anaffettività o ad una vera e propria anestesia psicologica, ovvero la pressoché totale incapacità di provare piacere o dispiacere. Per cercare di far comprendere tale stato mentale, si proponeva l’esempio di ciò che accade quando una musica gradita e in grado di evocare sensazioni positive, ricordi piacevoli e affetti espansivi, non produce più alcun effetto, e a stento è riconosciuta per un mero processo cognitivo.

Non si può negare che, prendendo le mosse da queste tracce e trascorrendo ore ad ascoltare pazienti depressi, si può più facilmente comprendere l’anedonia depressiva nel quadro generale di una perdita di risposte fisiologiche del sistema nervoso centrale e, soprattutto, analizzarne il rapporto con le dinamiche psicologiche e i contenuti mentali nell’interpretazione del paziente stesso. Ma si deve anche osservare che, in passato, si prestava scarsa attenzione all’anedonia da stress, quando non fosse parte di un quadro clinico corrispondente a una forma di nevrosi (psiconevrosi emozionali).

La storia della psichiatria, dalla psicastenia di Janet alla neurastenia, fino all’ipotesi eziopatogenetica degli anni Trenta del Novecento, formulata sulla base degli studi di Cannon, di un esaurimento delle cellule nervose, è costellata di esempi in cui la perdita di piacere e desiderio è stata interpretata come un deficit temporaneo della funzione neuropsichica. Negli anni recenti, dopo il lungo periodo in cui il prevalere della cultura psicodinamica ha spostato l’attenzione dal rapporto fra cervello e ambiente ai processi intrapsichici inconsci, ritenuti nella maggior parte dei casi responsabili degli stati funzionali psicopatologici espressi nelle manifestazioni cliniche, si è sentito il bisogno di individuare mediante la ricerca neuroscientifica il sostrato molecolare, cellulare e dei sistemi neuronici alla base dei sintomi.

La sperimentazione animale, sebbene abbia avuto il merito di fornire farmaci efficaci nei disturbi psicotici e in varie altre forme psicopatologiche, si è dovuta sempre basare su ipersemplificazioni dei processi psichici umani per trovare analogie funzionali nel cervello di specie, come quelle cui appartengono i roditori di laboratorio, filogeneticamente distanti dalla nostra. Si comprende, ad esempio, che il modo tutto umano di provare le molteplici forme del piacere artistico ed intellettuale in generale, ad esempio, con la gamma potenzialmente infinita dei gusti e delle variazioni individuali, non è neppure lontanamente accostabile ad alcun processo noto della psiche animale.

Dall’esigenza di trovare un analogo murino dell’anedonia, basandosi come si è fatto, ad esempio, per ansia, paura, inibizione e rabbia, sul comportamento reattivo associato e misurabile, si è ridefinito il concetto stesso: perdita di piacere e/o motivazione.

La lunga esperienza nello studio dello stato che determina sviluppo ed esecuzione di atti finalizzati e comportamenti diretti ad uno scopo, ossia la motivation, reso tradizionalmente con “motivazione” – secondo una traduzione impropria ma entrata da circa un secolo nel lessico prima della neurofisiologia e poi della psicologia – ha indotto a considerare la perdita di motivazione animale associata alla perdita di piacere[1] un equivalente dell’anedonia. Tale assimilazione, da noi criticata in passato, presenta dei problemi che stanno emergendo negli studi più recenti.

Stanton e colleghi dell’Università di Yale hanno realizzato un’interessante rassegna delle ricerche più importanti in questo campo.

(Stanton C. H., et al. From Stress to Anhedonia: Molecular Processes through Functional Circuits. Trends in Neurosciences – Epub ahead of print pii: S0166-2236(18)30254-6. doi: 10.1016/j.tins.2018.09.008, 2018).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Psychology, Department of Neuroscience, Yale University, New Haven, CT (USA).

Considerata tra i sintomi principali del disturbo depressivo maggiore (MDD, major depressive disorder), l’anedonia è stata in passato ritenuta, intuitivamente, l’espressione di un difetto del sistema dopaminergico a ricompensa. Ma, nonostante decadi di speculazioni sul ruolo della segnalazione mediante dopamina nella sintomatologia esprimente la perdita della capacità di provare piacere, le prove a sostegno delle varie ipotesi sperimentali non si sono mai rivelate chiare e conclusive, con risultati di differenti lavori spesso in contrasto fra loro. Un problema alla base di questa difficoltà nella ricerca, ben identificato da Treadway e Zald già sette anni or sono, e secondo noi non ancora risolto, consiste in una concettualizzazione approssimativa di anedonia, che non consente di distinguere fra gli aspetti consumatori e gli aspetti motivazionali del comportamento a ricompensa[2]. Considerato che le nozioni emerse dalla sperimentazione animale danno indicazioni precise circa la partecipazione della segnalazione dopaminergica solo per gli aspetti motivazionali della ricompensa, sarebbe opportuno rivedere il concetto di anedonia, distinguendo tra il difetto di piacere e quello di motivazione, per poter identificare i due distinti substrati neurofunzionali. Treadway e Zald proponevano, infatti, di distinguere l’anedonia motivazionale, bene studiata in laboratorio, adottando la definizione di “anedonia decisionale” per indicare la sua specifica influenza sul processo decisionale riguardante la ricompensa[3].

Numerose evidenze convergenti, emerse in vari studi condotti su specie differenti, provano il contributo dello stress ambientale all’anedonia, intesa secondo la definizione operativa più sopra riportata. Anche se è evidente il nesso causale fra esperienze stressanti e comparsa di un comportamento anedonico, sia nell’uomo che nei modelli animali più impiegati, le vie neurofunzionali e gli specifici meccanismi molecolari responsabili non sono stati ancora definiti con precisione; tuttavia, un contributo rilevante all’accertamento di queste basi neurobiologiche è stato desunto da Stanton e colleghi.

Gli autori della rassegna qui recensita sintetizzano le recenti acquisizioni ottenute a vari livelli di indagine, da quello molecolare delle vie di segnalazione fino a quello delle reti che interessano il cervello intero, per discutere i meccanismi mediante i quali lo stress può generare anedonia.

Le prove sperimentali suggeriscono la partecipazione di vari sistemi dell’organismo, che convergono sul sistema a ricompensa mesolimbico:

1)      il circuito della corteccia prefrontale mediale;

2)      le risposte neuroendocrine allo stress;

3)      i sistemi di regolazione dell’omeostasi energetica;

4)      i processi legati all’infiammazione.

Stanton e colleghi rilevano la necessità di distinguere, anche se sono fra loro interconnesse, le dimensioni chiave dello stress su specifici aspetti dell’elaborazione dell’informazione da parte del sistema a ricompensa, con particolare riferimento all’attività delle popolazioni neuroniche dopaminergiche dell’area tegmentale ventrale (VTA). Inoltre, sottolineano la necessità di prendere in considerazione anche le differenze individuali che possono intervenire modulando questo rapporto.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-03 novembre 2018

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Nell’animale misurata in genere come perdita della preferenza per il saccarosio, ma non utilmente impiegabile per questi studi.

[2] Treadway M. T. & Zald D. H., Reconsidering anhedonia in depression: lessons from translational neuroscience. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. 35 (3): 537-555, 2011.

[3] Treadway M. T. & Zald D. H., op. cit.